23 marzo-5 aprile: la piattaforma della Cgil

11 marzo 2002- Il governo Berlusconi non si limita a ridisegnare in peggio il profilo delle tutele e dei diritti del lavoro, con la legge delega che tra l’altro modifica l’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori; non si limita a mettere a rischio il futuro della previdenza italiana con la decontribuzione decisa, sempre per delega, per i giovani lavoratori; ma su un ampio ventaglio di temi – fisco, Mezzogiorno, istruzione e formazione, sanità, immigrazione, pubblica amministrazione, ambiente – sta dando risposte sbagliate, quando non inique, a esigenze vere di ammodernamento e di riforma.
Oltretutto l’esecutivo sta riscrivendo a colpi di delega e di leggi blindate il quadro normativo del paese, esautorando il Parlamento e riducendo a poco più di una formalità il confronto con le parti sociali.
Per questo la Cgil ha deciso una manifestazione nazionale a Roma il 23 marzo e uno sciopero generale di otto ore il 5 aprile. Per ottenere lo stralcio della norma sull’articolo 18 dalla delega sul mercato del lavoro. Ma insieme per incalzare il governo e costringerlo a un confronto serrato sulle risposte da dare ai bisogni del paese.
Oggi più che mai la parola d’ordine, per competere in un mondo sempre più globalizzato, è quella della qualità. Dentro il quadro di uno sviluppo sostenibile, e quindi attento alle ragioni sociali e dell’ambiente non meno che a quelle dell’economia, il nostro paese deve essere in grado di aumentare la competitività giocando soprattutto sul registro "alto" della qualità invece che su quello "basso" dei costi. Ma questo non è possibile se insieme non si punta in modo consapevole e convinto sul valore del lavoro, investendo a fondo su scuola e formazione; se non si responsabilizzano pienamente le imprese alle loro funzioni sociali così come sollecitano l’U.E. e l’O.I.L.; se non si assume fino in fondo l’obiettivo della tutela e valorizzazione delle risorse naturali con un forte impegno nella ricerca e nella innovazione; se non s’innalza la qualità complessiva del sistema-paese, rispondendo anche alle necessità del Mezzogiorno; se non si cerca di ristabilire la coesione puntando su una dinamica positiva nel rapporto tra le forze sociali, orientata alla crescita civile e sociale del paese e non ai valori della sopraffazione e dell’egoismo.

Articolo 18
Il disegno di legge delega in materia di lavoro presentato dal governo ha al suo centro il tentativo di eliminare dal nostro ordinamento giuridico la tutela dai licenziamenti ingiustificati stabilita dall’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori. Ciò avverrebbe da un lato aprendo un varco nella norma con l’esclusione dal suo ambito di applicazione di tutti i neo-assunti, sotto la forma ipocrita e odiosa della sperimentazione in caso di passaggio da tempo determinato a tempo indeterminato, ben sapendo che si tratta già ora del caso di gran lunga prevalente nelle assunzioni, che diventerebbe addirittura la regola. Dall’altro lato rendendo tacita la procedura arbitrale e consentendo che essa avvenga al di fuori del rispetto di leggi e contratti, cosa che oggi non è ammessa per queste materie, partendo dal presupposto che il rapporto di lavoro non è un rapporto equilibrato e che il lavoratore è la parte contraente debole da tutelare.
L’insieme di queste due novità renderebbe assolutamente inefficace la previsione di nullità dei licenziamenti senza giusta causa e di conseguente reintegro, attualmente in vigore per le imprese oltre i 15 addetti. Una norma che viceversa i sindacati confederali considerano un pilastro dell’ordinamento giuridico in materia di lavoro. Senza di essa il contratto di lavoro, affermandosi un principio di parità astratta tra i contraenti, perderebbe ogni specialità. Il lavoratore, non più riconosciuto dall’ordinamento quale contraente debole, si vedrebbe esposto a una privazione di tutele e minacciato nella sua dignità personale. Tutto ciò senza che alcuna dottrina economica né alcuna evidenza statistica possano seriamente dimostrare un qualche sia pur aleatorio beneficio sul versante occupazionale.
In coerenza con questa impostazione, il disegno di legge delega approvato dal governo è ispirato più in generale al criterio dell’abbassamento delle tutele, non solo là dove punta a smantellare il cardine fondamentale rappresentato dalla reintegrazione sul posto di lavoro dei lavoratori licenziati senza giusta causa, ma anche in tutta la parte di proposte in materia di rapporti di lavoro flessibile. L’impronta è quella della precarizzazione dei rapporti di lavoro, della prevalenza del rapporto individuale sulla contrattazione collettiva, della riduzione del rapporto di lavoro a rapporto commerciale privando il lavoratore della protezione cui oggi ha diritto in quanto parte contraente debole.

Per la Cgil è centrale la richiesta di stralciare dal disegno di legge delega approvato dal governo l’articolo 10, che contiene la sostanziale abrogazione dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, e l’articolo 12, che promuove l’arbitrato senza vincolo di legge o contratto in materia di lavoro.

 

Lavoro

Occupazione

In Italia ci sono due milioni di disoccupati. Oltre 1.200.000 lo sono da più di dodici mesi. Solo un disoccupato su tre ha un sostegno al reddito: salvo rare eccezioni, la condizione è che abbia lavorato negli ultimi sei mesi; il sostegno consiste nel 40% dell’ultima retribuzione (30% per gli stagionali che hanno maturato solo i requisiti ridotti) per un massimo di sei mesi. La spesa media per ogni beneficiario è stata nel 1999 (ultimo dato disponibile) di lire 6.616.246 lorde.
Meno del 10% dei disoccupati di lunga durata riceve una qualche formazione professionale finanziata con fondi pubblici.
I giovani disoccupati, quelli con meno di 24 anni, sono più di un milione e solo un quarto di essi riceve una formazione professionale o un’istruzione scolastica.
Una politica dell’impiego che rispetti le indicazioni della strategia europea per l’occupazione deve combinare in modo appropriato politiche attive di promozione dell’accesso al lavoro e politiche passive di sostegno al reddito.
Il disegno di legge delega approvato dal governo non risponde a nessuno di questi criteri e non risolve nessuno di questi problemi.
Quanto alle politiche attive, si configura un ruolo esclusivamente residuale per i servizi pubblici all’impiego e si lancia l’idea di spostare tutto l’intervento sul mercato. Coerentemente con questa impostazione nella Finanziaria 2002 gli stanziamenti destinati alle Province a questo titolo sono stati decurtati: sia quelli per l’avvio dei centri (100 miliardi) che quelli derivanti dal risparmio di spesa per la stabilizzazione degli Lsu.

 

La Cgil chiede che sia assicurato il sostegno finanziario minimo da parte dello Stato per far partire i servizi per l’impiego, sulla scorta di quanto richiesto anche dall’Unione province italiane. Il fabbisogno per informatizzazione, locali e attrezzature, formazione degli addetti, nuove assunzioni di personale, misurato sull’esigenza di rispondere ai parametri fissati dall’Unione europea, è stimato in 1.000 miliardi aggiuntivi rispetto allo stanziamento attuale, da sommare alla dotazione del Fondo sociale europeo. Una quota di risorse di entità grosso modo corrispondente è a carico delle Province.
Quanto alle politiche di sostegno al reddito, il governo ha deciso di non onorare gli impegni pluriennali che i precedenti governi avevano assunto in direzione di un rafforzamento delle tutele e di lasciare invariata la situazione attuale: copertura al 40% dell’ultima retribuzione per la disoccupazione industriale ordinaria (del 30% per quella a requisiti ridotti) per soli sei mesi.

La Cgil chiede che sia garantito a tutti i disoccupati un sostegno al reddito pari al 60% dell’ultima retribuzione, indipendentemente dai requisiti maturati, per un periodo di un anno, incrementabile per particolari situazioni, e la generalizzazione del reddito minimo di inserimento, opportunamente rivalutato.

Una misura di questa portata comporta un onere annuo tra i 30 e i 35 mila miliardi, con il tasso di disoccupazione attuale. L’incremento rispetto alla spesa attuale è tra i 10 e i 12 mila miliardi. In un’ipotesi di gradualità di 3 - 5 anni, lo stanziamento iniziale dovrebbe essere pari almeno a metà: tra i 5 e i 6 mila miliardi, a carico del bilancio dello Stato già da quest’anno.
Non è del resto immaginabile un incremento degli oneri contributivi, se non per le imprese oggi esenti che invece, in un’ipotesi di copertura universale, dovrebbero essere soggette a imposizione.

La Cgil chiede inoltre che sia estesa ai settori oggi esclusi la copertura dal rischio di riduzione temporanea di occupazione per ristrutturazione o per crisi contingente, in costanza di rapporto di lavoro, con un finanziamento su base contributiva integrativo della quota universale a carico dello Stato.

La contribuzione dovrà essere:

commisurata al rischio, per macro-settori;

rapportata alla differenza tra la copertura base offerta dal trattamento di disoccupazione e quella (80%) da assicurare in queste particolari evenienze, mantenendo in vigore una forma di prelievo straordinario a carico delle imprese che ricadano nella situazione di crisi.

"Per i casi di esuberi strutturali, la Cgil chiede che siano mantenute sostanzialmente invariate le procedure attualmente vigenti, sia per ciò che riguarda la convalida della sussistenza di valide motivazioni obiettive, sia per la misura del sostegno al reddito da uniformare, per tutto il periodo di corresponsione, a quella prevista per crisi contingenti. Si dovranno inoltre prevedere specifiche procedure di concertazione a livello territoriale per la gestione della ricollocazione professionale dei lavoratori in esubero, con un coinvolgimento diretto delle imprese nelle quali si verificano tali circostanze, sia per ciò che riguarda l’attivazione degli strumenti di riqualificazione professionale e le altre forme di intervento attivo, sia per ciò che riguarda un contributo, sotto forma di prelievo straordinario, al finanziamento del sostegno al reddito".
Nel rispetto del criterio della separazione contabile e gestionale della previdenza dall’assistenza, il Fondo per il sostegno al reddito dei disoccupati, secondo le linee qui descritte, dovrebbe avere una gestione autonoma o, al limite, separata da quella dell’Assicurazione generale obbligatoria.
In un contesto di promozione dell’accesso al lavoro è fondamentale il ruolo della formazione, strumento di politica attiva per eccellenza. Il disegno di legge delega approvato dal governo da questo punto di vista è assolutamente insoddisfacente in quanto non dà risposta all’esigenza di riforma degli attuali contratti a causa mista, mantenendo in piedi sovrapposizioni e ambiguità che tendono a perpetuare un loro uso opportunistico.

Per la Cgil occorre rivedere completamente i rapporti di lavoro a contenuto formativo, sia quanto alle norme che li regolano sia per ciò che riguarda il sistema di incentivazione. Si devono prevedere due soli istituti:

l’apprendistato, per i giovani fino a 24 anni (29 se laureati)

il contratto di inserimento per gli adulti con difficoltà di collocamento (disoccupati di lunga durata, donne che rientrano nel mercato del lavoro, over 55, altre fasce di esclusione sociale da individuare regionalmente).

L’incentivo deve essere rivolto esclusivamente a alleggerire gli oneri di formazione effettivamente sostenuti e a promuovere la stabilizzazione a tempo indeterminato (a tempo pieno o parziale, il secondo purché su base volontaria).

La legge deve regolare i requisiti per l’accesso al finanziamento e dunque gli standard formativi minimi e l’obbligo delle ore di formazione esterna previste dalla legge vigente.

Deve inoltre fissare tutele inderogabili a protezione del lavoro dei minori e a salvaguardia del peculiare contenuto formativo per loro richiesto in costanza di obbligo formativo.

Per il resto la regolazione dei rapporti di lavoro può essere demandata alla contrattazione collettiva di categoria dei lavoratori dipendenti.

Occorre inoltre riformare la normativa relativa all'alternanza tra studio e lavoro (tirocini formativi, stages, Pip) prevedendo un unico strumento a contenuto formativo certificato, incentivato con risorse pubbliche.

Lavoratori atipici e discontinui

La quota di lavoratori cosiddetti atipici sull’occupazione è aumentata in modo molto consistente in questi ultimi anni, anche per effetto di un’assenza di regole tali da assicurare una tutela efficace di queste forme di rapporto di lavoro.

Nonostante generiche affermazioni di principio in favore della estensione di tutele alle aree oggi meno tutelate, il disegno di legge delega approvato dal governo lascia senza risposta le esigenze di queste aree di lavoratori e aumenta semmai a dismisura il menù di opzioni flessibili a disposizione dei datori di lavoro senza ristabilire in nessun modo un bilanciamento di diritti e una protezione.

 

La Cgil rivendica che per tutti i lavoratori economicamente dipendenti, quale che sia la forma specifica che regola la prestazione, siano previste e rese concretamente esigibili le tutele fondamentali previste dalla Costituzione in materia di libertà personali, diritti sindacali, salute e sicurezza, retribuzione, assistenza e sicurezza sociale, così come era stato tentato di fare come primo passo nella scorsa legislatura con il disegno di legge Smuraglia relativo ai collaboratori coordinati e continuativi, incontrando l’opposizione violenta e pregiudiziale di Confindustria e delle forze politiche dell’allora opposizione.

In un’ottica di estensione di tutele tipiche del lavoro subordinato a sostegno di situazioni di discontinuità lavorativa e di incertezza quanto a responsabilità delle controparti, occorre intervenire anche su:

sostegno al reddito: nei periodi di assenza di commesse vale la regola generale per il sostegno al reddito dei disoccupati; si devono inoltre individuare le forme di prelievo contributivo e/o fiscale, rivedendo in questa ottica le norme della Finanziaria 2002 in modo che il maggiore carico contributivo sia finalizzato a questo scopo

formazione: occorre inoltre istituire un Fondo di entità paragonabile a quello sul lavoro temporaneo, con modalità di gestione affidate alla rappresentanza dei lavoratori parasubordinati;

previdenza: occorre garantire la copertura previdenziale pubblica per i periodi di non lavoro e l’accesso a forme di previdenza complementare;

assistenza: occorre garantire, con forme specifiche, l’effettività di alcuni diritti riconosciuti in forma universale a chi lavora, quale il reddito garantito nel periodo pre e post parto, ovvero il sostegno per i carichi familiari.

Formazione continua

Occorre assicurare a tutti il diritto alla formazione permanente, accelerando il varo dei fondi interprofessionali per la formazione continua, rifinanziando adeguatamente la legge n. 53/2000 nella parte riguardante i congedi formativi e il sostegno alla riduzione e rimodulazione dell’orario di lavoro a fini formativi, e sostenendo lo sviluppo dei centri territoriali integrati per l’educazione degli adulti.

 

Sommerso

La legge approvata dal governo per il condono del sommerso si è rivelata un fallimento, come la Cgil aveva puntualmente previsto dato il carattere esclusivamente tributario, la totale assenza di meccanismi contrattuali e la mancanza di soluzioni eque al problema dei diritti indisponibili dei lavoratori in materia retributiva e pensionistica.

Una strategia efficace contro il sommerso resta invece un tassello fondamentale di qualunque politica a favore dell’occupazione, della qualità del lavoro, della legalità. I fatti hanno dimostrato come fossero falsi e strumentali i proclami di Confindustria in questa materia, volti solo a lucrare condoni e sanatorie.

 

Per la Cgil occorre riprendere il cammino interrotto, mettendo di nuovo al centro della lotta al sommerso la contrattazione collettiva e ripristinando le condizioni necessarie di funzionalità degli organi di vigilanza e di controllo.

Esaurita ormai la fase dei contratti di riallineamento retributivo, la contrattazione deve coinvolgere gli altri attori locali nel disegnare percorsi di emersione sostenuti e aiutati con incentivi alla legalità che siano anche di sostegno alla competitività e che abbiano al centro un’offerta adeguata di infrastrutture e servizi: dai locali alla logistica, dalla compatibilità ambientale alla messa a norma per la sicurezza, dall’accesso al credito alla gestione amministrativa, dallo snellimento delle procedure burocratiche alla protezione dalla criminalità.

È solo all’interno di questi processi che possono trovare posto, in termini efficaci e non controproducenti, gli incentivi di carattere fiscale a carico dello Stato.

 

Flessibilità

Occorre ristabilire le condizioni di rispetto rigoroso dei princìpi fissati nelle direttive europee tornando al criterio del giusto bilanciamento di flessibilità e tutele che ha permesso significativi avanzamenti nella situazione dell’occupazione negli anni tra il 1999 e il 2001.

 

Per la Cgil deve pertanto essere rivisto il decreto legislativo in materia di contratti a tempo determinato ripristinando le norme che assegnano un ruolo centrale alla contrattazione e che vincolano il ricorso a questa forma di rapporto di lavoro alla sussistenza di ragioni oggettive.

Occorre inoltre confermare e completare il quadro di regole stabilito per il lavoro part-time, introducendo, per rimuovere le rigidità che tuttora si frappongono alla sua diffusione, due norme-chiave, tuttora assenti nel nostro ordinamento benché di fondamentale importanza anche alla luce delle esperienze dei nostri partner europei dove il ricorso a questa forma di lavoro si è diffusa maggiormente:

il riconoscimento di un trattamento di disoccupazione per i periodi non lavorati a fronte di una ricerca di lavoro a saturazione di orario;

il divieto per le aziende di frapporre rifiuto, ovvero di porre tetti quantitativi massimi, a eventuali domande di conversione di rapporto da tempo pieno a tempo parziale, a meno di ostacoli tecnico-organizzativi insormontabili da parte dell’impresa, documentabili e con onere di prova a carico, ferma restando la reversibilità in base al principio della volontarietà.

Deve inoltre essere finanziata la norma della legge Treu (articolo 13 della legge 196/97) che incentiva le rimodulazioni di orario n diminuzione con aumento di occupazione.

 Mezzogiorno

Le politiche mirate per il Mezzogiorno vanno collocate in un’idea dello sviluppo complessivo del paese fondata sulla sua qualità alta. Il silenzio del governo sul Mezzogiorno, registrato prima con la manovra dei 100 giorni e poi con la Finanziaria, è assordante.

Il disegno della Confindustria e del governo punta soltanto a precarizzare e a dequalificare il lavoro al Sud basandosi sulla tesi infondata, quanto sciagurata, secondo la quale l’occupazione del Mezzogiorno può aumentare solo a condizione che si deroghi dai diritti fondamentali, a partire dalla libertà di licenziamento.

La crescita e lo sviluppo del Mezzogiorno hanno bisogno di un’affermazione piena della legalità e un preciso contrasto alla criminalità e alla mafia. Non giova a questo fine l’aggiramento della legge Merloni e delle prerogative delle istituzioni pubbliche che si prefigge la Confindustria con le Fondazioni che dovrebbero attivare progetti infrastrutturali nel Sud.

La Cgil rivendica nei confronti del governo, delle Regioni e delle organizzazioni imprenditoriali una svolta espansiva nella politica di sviluppo del Mezzogiorno, non affidata esclusivamente ai meccanismi del mercato, ma articolata su adeguati interventi di sostegno alla domanda e al sistema produttivo e dei servizi.

Occorrono politiche per la ricerca, l’innovazione, il rafforzamento della dotazione infrastrutturale.

In particolare sono urgenti politiche di riequilibrio dello sviluppo e quindi interventi mirati per il Sud e le aree depresse attraverso:

il ripristino del flusso di finanziamento di risorse per la programmazione negoziata e le politiche di incentivo a favore delle aree depresse;

un progetto di infrastrutture materiali e immateriali (viabilità, alta capacità ferroviaria, portualità, logistica, energia idrica, telecomunicazioni);

l’utilizzo corretto e tempestivo dei Fondi comunitari;

un programma di attrazione al Sud di investimenti, dalle aree sature del Nord e dall’estero sostenuto da forti incentivazioni, come la possibilità di cumulare il credito d’imposta per il Sud alla Tremonti bis.

 Fisco

La legge delega sul fisco non è stata oggetto di confronto con il sindacato. Ciò è di eccezionale gravità per le strette connessioni che esistono tra politica fiscale e politica dei redditi e per le ricadute che deriveranno, da questo provvedimento, sulle condizioni economiche e di vita dei lavoratori e dei pensionati.

La delega apre uno scenario preoccupante e, privilegiando in maniera fortemente sperequata i ceti più abbienti, infligge una ferita profonda alla coesione e alla giustizia sociale.

La delega è priva dei princìpi minimi necessari a indirizzare il governo nella emanazione dei decreti legislativi. Essa tranne per l’imposta sulle società, appare essere sostanzialmente in bianco e quindi spossessa il Parlamento di una delle sue funzioni essenziali: quella di decidere sulle tasse che devono pagare i cittadini. Il disegno di legge è privo di copertura e quindi c’è il rischio che le riduzioni fiscali promesse o non siano realizzate, a causa di una mancata crescita delle basi imponibili in grado di compensare la perdita di gettito, oppure comportino, in una fase successiva, la riduzione della spesa pubblica. La relazione che accompagna la delega, infatti, ipotizza una drastica riduzione del perimetro dell’intervento pubblico e, in particolare, del welfare.

In materia di Irpef la delega prevede due soli scaglioni con un’aliquota al 23 per cento fino a 100 mila euro e una seconda al 33 per cento per i redditi superiori. Questa impostazione, che annulla la progressività, non trova paragoni nella Unione europea e neppure negli stessi Stati Uniti. La delega, inoltre, non indica criteri chiari né sulla determinazione delle soglie esenti, né sul sistema di deduzioni che dovrebbe sostituire l’attuale sistema di detrazioni. La proposta non prevede poi una specifica deduzione supplementare per i lavoratori dipendenti che oggi godono di detrazioni più consistenti di quelle dei lavoratori autonomi (che possono portare in deduzione analitica le spese di produzione di reddito). Tutte le simulazioni effettuate, anche nel caso di ingenti perdite di gettito, vedono penalizzati i redditi degli operai, degli impiegati e dei pensionati, mentre i maggiori benefici si concentrano sui contribuenti più ricchi.

In questo modo il disegno di legge viola i principi di solidarietà e di uguaglianza di cui agli articoli 2 e 3 della Costituzione e quello di progressività di cui all’articolo 53 della nostra Carta fondamentale. La delega inoltre, non affronta il problema di milioni di soggetti incapienti che, a motivo del basso livello di reddito, non possono fruire di deduzioni e detrazioni.

Per la Cgil è fondamentale che:

• la riduzione dell’imposizione privilegi pensionati e lavoratori a reddito medio-basso; occorre pertanto un giusto numero di scaglioni e di aliquote e un’aliquota massima superiore al 40%;

la riduzione del prelievo statale non produca, attraverso l’aumento dell’imposizione locale, un incremento di quello complessivo;

• la riduzione della pressione fiscale non comporti il sacrificio delle politiche sociali, di quelle per l’istruzione e la formazione, degli interventi per lo sviluppo e la ricerca. La spesa sociale va, anzi, riqualificata e aumentata al livello medio europeo per finanziare il Reddito minimo di inserimento, politiche per l’autosufficienza degli anziani, la riforma degli ammortizzatori sociali.

 

La Cgil chiede pertanto di indicare le soglie individuali e familiari di esclusione dall’imposizione, determinando con precisione il quadro delle detrazioni e deduzioni, con particolare riferimento ai minori, ai portatori di handicap, al lavoro di cura e di assistenza, alla formazione. Per la casa va stabilita parità di trattamento fiscale tra proprietari e inquilini. Una specifica attenzione va riservata ai pensionati, prevedendo il rafforzamento e l’estensione di specifiche detrazioni connesse all’età e finalizzate anche al recupero del potere di acquisto delle pensioni.

La Cgil rivendica inoltre la previsione di specifiche detrazioni per le spese di produzione di reddito sostenute dai lavoratori dipendenti e dai collaboratori coordinati e continuativi e la previsione di un credito di imposta compensabile e/o rimborsabile per i contribuenti che non siano in condizione di fruire completamente di deduzioni e detrazioni.

In materia di evasione fiscale il ministero dell’Economia e delle Finanze stima in circa 150 miliardi di euro l’imponibile evaso. Invece di introdurre misure forti per ridurre il livello di illegalità fiscale, il governo annulla la punibilità del reato di evasione fiscale anche per le violazioni di maggior rilevanza e introduce il concordato preventivo triennale che rischia di rendere inefficaci gli studi di settore.

La Cgil chiede che la delega venga integrata con una specifica attenzione all’amministrazione finanziaria e da normative che consentano un efficace contrasto dell’evasione e dell’elusione fiscale.

Quanto alla tassazione delle rendite finanziarie, la Cgil condivide la proposta di omogeneizzare l’imposizione su tutti i redditi di natura finanziaria ma respinge la proposta del governo di un’aliquota unica al 12,5 per cento che finirebbe col dare un ulteriore colpo alla progressività sostanziale del sistema fiscale . L’aliquota unica va fissata ai livelli medi europei e in misura non inferiore a quella prevista per il primo scaglione Irpef.

In materia di tassazione e sviluppo, la riforma contenuta nella delega non si pone l’obiettivo di rendere finanziariamente più forti le imprese italiane e più sviluppati i nostri mercati finanziari. La Cgil rivendica un sistema di fiscalità di impresa che premi chi si patrimonializza, chi fa ricerca, chi innova, per innalzare in termini qualitativi la competitività dell’apparato produttivo del paese. La Cgil rivendica altresì, la riduzione del cuneo fiscale e contributivo che grava sul lavoro, dando priorità al lavoro dequalificato così come suggerito dall’Unione europea.

Il governo, sul punto cruciale del federalismo fiscale, non avanza nessuna proposta, mentre occorre provvedere con urgenza alla normativa nazionale di coordinamento della fiscalità locale prevista dall’art. 119 della Costituzione, recentemente modificato. Occorre infatti che i diritti sociali di cittadinanza siano uguali a prescindere dalla regione in cui si risiede. In questo quadro la soppressione dell’Irap (imposta a cui è affidata parte rilevante del finanziamento del Servizio sanitario) apre enormi problemi di ordine costituzionale e finanziario.

La Cgil rivendica certezza di finanziamento per il Servizio sanitario nazionale: l’Irap non va soppressa, ma riformata a favore delle piccole imprese e, soprattutto, delle imprese a più alta intensità di lavoro.

 

 Istruzione e formazione

Sull’istruzione e sulla formazione si sono concentrati in pochi mesi oltre una decina di provvedimenti tesi a modificare tutto l’impianto riformatore definito negli anni scorsi ed in corso di attuazione.

Le linee di fondo dell’azione del governo sono volte all’attacco del sistema pubblico di istruzione.

I filoni di intervento possono essere così riassunti:

un consistente sostegno alle scuole private (trasferimento di risorse; utilizzo delle risorse riservate alla scuola statale; privilegi normativi che le rendono più forti rispetto a quelle di Stato; assenza del benché minimo controllo; immissione in ruolo di 20.000 docenti di religione cattolica con requisiti decisi dall’autorità ecclesiastica; revisione degli esami di stato);

blocco dei processi di integrazione tra istruzione e formazione e disinteresse per una formazione rivolta all’intero arco di vita delle persone;

ostacoli al funzionamento delle scuole autonome e evidenti tentativi di ritornare a un ministero centralizzato e a scuole anonime.

Le politiche sul personale sono duramente coerenti con questo impianto: si taglieranno oltre 34.000 posti di lavoro nei prossimi tre anni fra gli insegnanti, come anticipo di una ben più vasta riduzione, e circa 30.000 posti fra il personale ata che si aggiungono ai 20.000 tagliati a luglio. Si riducono gli stanziamenti in bilancio e si vuole riportare il contratto degli insegnanti sotto il controllo politico del ministero.

In questo quadro negativo il ministero non si distingue neanche per efficienza, infatti il ministro Moratti non sta producendo risultati neanche dal punto di vista del funzionamento ordinario della scuola e i tanti problemi sono sempre più pesanti.

Anche per la riforma della scuola e della formazione il governo ha scelto lo strumento della delega, sottraendo ancora una volta ogni possibilità di discussione al Parlamento e al paese su questioni rilevanti, che attengono a diritti fondamentali delle persone. La scuola diventa uno dei tanti terreni di intervento della maggioranza, non più l’istituzione cui il paese affida la formazione dei suoi cittadini!

Il disegno di legge delega di riforma della scuola, recentemente approvato, riporta indietro di decenni l’orologio della storia del nostro paese, a quando studiare era un privilegio per pochi e lavorare una condanna per troppi.

Non si punta, come chiede l’Europa, a innalzare i livelli d’istruzione per tutti ma solo per un gruppo ristretto e socialmente forte.

Si abolisce l’obbligo scolastico previsto dalla nostra Costituzione per cui ognuno sarà costretto ad arrangiarsi secondo il suo reddito ed il territorio nel quale vive.

È inaccettabile l’anticipo dell’iscrizione nelle scuole dell’infanzia ed elementari. Nell’infanzia la scuola tornerebbe a un ruolo di assistenza e custodia mentre le elementari vedrebbero convivere nella stessa classe bambini con differenze d’età fino a 20 mesi!. Altresì è sbagliata la rigida separazione tra scuola elementare e scuola media, così come l’istituzione di un doppio canale, dopo la scuola media, rigidamente separato fra la scuola statale che conta (il liceo) e la formazione regionale che prepara al lavoro. Anzichè l’integrazione tra scuola e lavoro per tutti, si introduce, oltre l’apprendistato, un percorso di alternanza scuola lavoro, che consegna al mercato giovani fra i 15 e i 18 anni di età, senza regole né tutele.

Sono provvedimenti sbagliati pedagogicamente e inaccettabili socialmente.

La Cgil vuole una scuola pubblica, laica, di qualità per tutti e in tutto il paese.

Il patrimonio di sapere e il suo costante incremento sono il metro del progresso civile, democratico e sociale di un paese. Questo è stato deciso dai ministri dell’Istruzione europei. Coerentemente, il nostro obiettivo è quello di far sì che i sistemi scolastici contribuiscano a costruire l’Europa dei cittadini, dei diritti, della cultura.

L’innalzamento dei livelli di istruzione di tutti, la garanzia di un qualificato sistema di educazione degli adulti, lo sviluppo di luoghi di integrazione fra istruzione e formazione rappresentano i cardini della nostra proposta.

I nostri obiettivi:

no alla delega sulla riforma dell’istruzione perché la scuola non è la proprietà privata di alcuni e tutti debbono poter contribuire alla sua riforma e controllarne l’applicazione;

sostegno ai processi di riforma in corso, a partire dallo sviluppo dell’autonomia scolastica, perché la scuola ha bisogno di certezze e non è possibile che a ogni governo cambino le regole di funzionamento;

risorse per lo sviluppo dell’autonomia scolastica contro ogni centralismo, sia esso statale che regionale;

una scuola in cui sia obbligatorio l’ultimo anno di scuola dell’infanzia; che preveda almeno 10 anni di obbligo; che impedisca scelte irreversibili nella secondaria, mediante scambi e confronti tra i canali concorrenti all’attuazione dell’obbligo formativo a 18 anni;

sviluppo del tempo pieno e del tempo prolungato;

una trasparente e corretta gestione della legge sulla parità, nel rispetto del divieto costituzionale di trasferire risorse alle scuole private;

organi collegiali di scuola democratici e partecipativi, ai quali partecipino tutte le componenti scolastiche, non la brutta copia di consigli di amministrazione quasi che i diritti dei ragazzi fossero merci da consegnare al mercato. Ritiro della modifica della composizione delle commissioni per gli esami di Stato, che penalizza gli studenti della scuola statale, pregiudica la validità del titolo rilasciato, mortifica professionalmente i docenti, dequalifica la scuola pubblica.

risorse per raggiungere con il contratto le retribuzioni europee per i docenti, nel rispetto degli accordi sottoscritti con i precedenti Governi, e per retribuire adeguatamente le professionalità del personale ata;

la chiusura del contratto della Formazione professionale convenzionata scaduto ormai da cinque (!) anni contro ogni tentativo di superare il contratto nazionale e introdurre contratti regionali;

strumenti di salvaguardia e tutela del personale dipendente della Formazione professionale, attraversata da profondi processi di ristrutturazione e da gravi crisi occupazionali, finora pagati, con i licenziamenti, solo dai lavoratori. 

Previdenza

Il disegno di legge delega approvato dal governo s’ispira direttamente alle proposte avanzate da Confindustria nel convegno di Parma. Queste puntano al drastico ridimensionamento del sistema pensionistico pubblico con la decontribuzione e l’obbligatorietà della previdenza complementare.

Le norme tese a incentivare il proseguimento dell’attività lavorativa, una volta maturati i requisiti per la pensione di anzianità, sono inefficaci e puramente propagandistiche.

La Cgil manifesta la più netta contrarietà ai seguenti cinque aspetti della delega e avanza proprie proposte alternative.

1. In base a quanto previsto dalla delega, per continuare l’attività lavorativa usufruendo degli incentivi il lavoratore deve cessare il rapporto di lavoro esistente e accenderne uno nuovo a tempo determinato, sempre che il datore di lavoro sia d’accordo. Sarà dunque il datore di lavoro che potrà decidere se il lavoratore potrà usufruire o meno di un suo diritto.

La Cgil propone che la facoltà di proseguire il lavoro con incentivi dopo il conseguimento del requisito della pensione di anzianità spetti esclusivamente al lavoratore. Chiede altresì che venga rivista la normativa sul pensionamento parziale (pensione più lavoro part-time) con l’introduzione di incentivi per i lavoratori e per le imprese che lo adottano.

2. Il provvedimento obbliga il lavoratore a conferire il Tfr ai Fondi pensione: ciò è incostituzionale, in quanto il Tfr è salario differito, e lede il diritto alla libera previdenza complementare fondata sulla contrattazione. È evidente che il vero obiettivo di questa proposta è quello di ridurre il pilastro pubblico per privatizzare la parte più rilevante del sistema pensionistico.

La Cgil ribadisce che il Tfr è di esclusiva proprietà del lavoratore e che contrasterà con ogni mezzo il tentativo di "scippo" che il governo ha in mente con la cosiddetta cartolarizzazione. Se il lavoratore vuole aderire liberamente alla previdenza complementare, l’impresa deve essere obbligata a trasferire il Tfr ai Fondi pensione contrattuali anche attraverso procedure di silenzio-assenso.

3. Il sistema di decontribuzione previsto dalla delega comporterà:

• un abbassamento dell’aliquota contributiva;

• la previsione, in prospettiva di trattamenti previdenziali più bassi per le giovani generazioni di lavoratori;

• un disequilibrio nei bilanci degli enti previdenziali che avrà effetti negativi anche sui diritti dei lavoratori più anziani e degli stessi pensionati.

La decontribuzione crea inoltre costi del lavoro differenziati a seconda della data di assunzione, con pesanti riflessi negativi sul mercato del lavoro. Essa non serve ad agevolare la previdenza complementare: il costo dello smobilizzo del Tfr è stato in buona parte già caricato sui contratti nazionali di lavoro e gli incentivi fiscali e contributivi già previsti sono più che sufficienti per compensare le imprese della perdita della disponibilità del Tfr. Il suo vero obiettivo è soltanto quello di infliggere un colpo al sistema pensionistico pubblico.

La decontribuzione non stimola la crescita dell’occupazione, ma favorisce la sostituzione di lavoratori anziani con lavoratori giovani. Inoltre, aprendo una forbice così ampia tra aliquota di computo e aliquota effettiva, non determina soltanto gravi problemi di sostenibilità finanziaria ma snatura il principio di corrispettività tra contributi e prestazioni che è alla base della riforma delle pensioni e reintroduce disparità di trattamento che la formula contributiva ha eliminato. La decontribuzione contenuta nella delega premia, infatti, le carriere brillanti (dirigenti) rispetto a quelle lente (operai ed impiegati).

La Cgil chiede la cancellazione della decontribuzione prevista dalla delega e rivendica la riduzione del cuneo fiscale e contributivo sul lavoro per favorire l’incremento del tasso di occupazione e l’aumento del potere d’acquisto dei salari più bassi. Propone che venga completato il processo di fiscalizzazione degli oneri impropri deciso nel Patto di Natale del 1998 e che la riduzione del cuneo fiscale e contributivo, in coerenza con le indicazioni dell’Unione Europea, incida in modo prevalente sugli oneri non salariali che gravano sul lavoro dequalificato.

4. La delega prevede un’accelerazione dell’aumento contributivo previsto per i lavoratori parasubordinati senza indicare il corrispettivo adeguamento delle prestazioni pensionistiche a quelle previste per i lavoratori autonomi e senza prevedere il miglioramento delle tutele sociali per questa categoria.

La Cgil chiede che ai parasubordinati, a fronte dell’aumento dei contributi, venga estesa l’aliquota di computo dei lavoratori autonomi (cioè che le prestazioni pensionistiche vengano calcolate come se il contributo fosse pari al 20%) e migliorati le indennità di maternità malattia e gli assegni per il nucleo familiare e che venga introdotto il diritto all’indennità di disoccupazione (con requisiti pieni e ridotti).

5. La delega non chiarisce bene l’applicazione dei suoi principi e criteri direttivi all’impiego pubblico.

La Cgil rivendica la piena applicazione al pubblico impiego della delega con le modifiche richieste nei punti precedenti.

Sanità

La legge n. 405 del 16 novembre 2001, nel definire le risorse disponibili per il finanziamento del Servizio sanitario nazionale, riconosce alle Regioni la libertà di scegliere modelli gestionali differenti per la gestione degli ospedali e dei servizi.

Le legge finanziaria 2002 prevede la privatizzazione degli Istituti di ricovero e cura a carattere scientifico (Irccs) attraverso la loro trasformazione in Fondazioni.

Il decreto che recepisce l’accordo Stato-Regioni del 22 novembre 2001 e definisce i livelli essenziali di assistenza dovuti a tutti i cittadini italiani nell’ambito del Sistema sanitario nazionale, lascia discrezionalità alle Regioni, sia per l’individuazione dei farmaci gratuiti e di quelli soggetti a ticket, sia per la modalità di erogazione delle prestazioni appropriate ed essenziali.

L’insieme di questi provvedimenti mette in discussione l’universalità e l’uniformità delle prestazioni su tutto il territorio nazionale e quindi l’equità del Servizio sanitario regionalizzato.

L’obiettivo è quello di privatizzare i servizi più remunerativi e di garantire l’assistenza sanitaria solo ai più poveri.

La Cgil considera la salute un diritto di cittadinanza inalienabile e perciò sostiene la necessità di un Servizio sanitario nazionale pubblico e universalistico.

Chiede, quindi che:

ci siano risorse pubbliche certe per il finanziamento del Sistema sanitario nazionale;

si blocchi la privatizzazione degli Irccs;

si stabiliscano atti di indirizzo nazionali che garantiscano l’uniformità del diritto per tutti i cittadini italiani nel rispetto dei principi del federalismo solidale. 

 

Pubblica amministrazione

L’iniziativa del governo sulla pubblica amministrazione ha come obiettivo dichiarato quello dell’idea di Stato minimo che riduce la quantità e la qualità dei servizi che il pubblico offre ai cittadini, e in particolare ai più deboli, in nome della riduzione del campo di intervento della gestione pubblica, a favore dell’intervento privato: ad esempio nel sistema scolastico nel quale si riducono sistematicamente le risorse umane e materiali destinate al funzionamento del sistema pubblico per redistribuirle a favore di soggetti diversi; nel sistema della ricerca scientifica attraverso la privatizzazione annunciata degli enti; nella gestione privata del sistema museale.

Le risorse così ricavate vengono destinate alla riduzione del prelievo fiscale, liberando in tal modo – per gli alti redditi – risorse da reinvestire anche nel campo della ricerca del ricorso individuale alle prestazioni sociali (l’intervento assicurativo in campo sanitario o previdenziale).

In questo quadro si collocano le scelte di privatizzazione delle strutture pubbliche contenute nella legge finanziaria, da quelle, tra le altre, che trasformano in Fondazioni gli istituti di ricovero e cura a carattere scientifico o all’assunzione della "proficuità" come unico parametro da valutare ai fini della privatizzazione alla generalizzata esternalizzazione di servizi e funzioni, alla riorganizzazione di strutture pubbliche già sottoposte ad un vasto e ancora incompiuto processo di riforma.

Alla base di tali operazioni annunciate l’esigenza di "fare cassa" per ridurre le imposte o finanziare la Tremonti-bis.

In tutte queste operazioni non si tengono nel dovuto conto né le ricadute sulle domande collettive di servizi alle persone, a partire dai bassi redditi e dal disagio sociale, né le ripercussioni sui livelli occupazionali dei lavoratori pubblici e sulla stessa organizzazione del lavoro nelle pubbliche amministrazioni.

Sempre in questa logica si inserisce il ritorno a un processo strisciante di decontrattualizzazione del lavoro pubblico e di ricostruzione del primato della "politica" sull’operato della dirigenza e delle oubbliche amministrazioni, anche attraverso il blocco della contrattazione nazionale e integrativa, previsto dalla legge finanziaria, finalizzato a interrompere lo sviluppo dinamico dell’intervento sull’organizzazione dei servizi e la valorizzazione del lavoro pubblico.

Questo disegno ha subito una battuta d’arresto con il protocollo d’intesa firmato il 5 febbraio, frutto dell’iniziativa di mobilitazione e di lotta dei lavoratori pubblici; è stata segnata un’inversione in questa opera demolitoria dell’intervento pubblico; è stato riconfermato il principio della contrattualizzazione; si è avviata la stagione contrattuale nel rispetto del sistema di contrattazione previsto dal protocollo del 23 luglio1993.

Il completo e rigoroso rispetto dell’accordo è condizione necessaria per lo smantellamento del disegno controriformatore.

La Cgil è impegnata in questa direzione, consapevole che in caso di violazione dell’accordo occorrerà riprendere la via della lotta dei lavoratori.  

Immigrazione

Il disegno di legge governativo di modifica del testo unico sull’immigrazione, dlgs 286/98, recentemente approvato dal Senato, contrasta radicalmente con i princìpi di garanzia e di certezza dei diritti per tutti i cittadini, a cui le nostre organizzazioni si sono ispirate nel confronto che portò a tracciare le nuove regole poste alla base della legge 40/98 e dei percorsi di integrazione che vi sono prospettati. Inoltre, il disegno di legge predisposto dall’attuale governo, in alcune parti, appare contrastare perfino con importanti princìpi costituzionali.

Non è soltanto una differenza di impostazione, dunque, ma una contrapposizione sostanziale che intendiamo rimarcare rispetto a un progetto che propone esclusione in luogo di inclusione, diseguaglianza in luogo di eguaglianza, ospitalità in luogo di cittadinanza.

La Cgil, assieme a Cisl e Uil, ritiene che occorra assumere a riferimento il quadro di diritti (di libera circolazione, di voto, di ricongiungimento familiare, di assistenza) che vanno consolidandosi a livello europeo in una serie di direttive in corso di approvazione: da quella sul ricongiungimento familiare, a quelle sulla stabilizzazione del permesso di soggiorno di lunga durata, fino all’attuazione della convenzione di Strasburgo sulla partecipazione alla vita democratica dei governi locali. Un quadro normativo a cui devono uniformarsi i vari paesi europei nella loro produzione legislativa nazionale. Al contrario, il filo conduttore del ddl del governo è in contrasto anche con il quadro europeo.

Complessivamente è nostra convinzione che debba essere conservato l’impianto generale della legge 40/98, oggi riunificata con altre normative nel testo unico 286/98 rafforzando semmai gli aspetti che ne hanno determinato i limiti applicativi.

In particolare intendiamo sottolineare i seguenti punti di merito:

programmazione dei flussi: va salvaguardato il criterio fondamentale di regolazione dell’afflusso di immigrati attraverso una programmazione attenta, di valenza triennale, arricchita dell’apporto propositivo delle istituzioni decentrate;
sponsor: deve restare in vigore la possibilità di ingresso per ricerca di lavoro con garanzia certificata e assicurata dallo sponsor; si tratta di uno strumento fondamentale sia per la persona che entra in Italia sia per garantire un clima di fiducia e di aiuto per l’incontro tra domanda e offerta di lavoro;
lavoro domestico: il lavoro domestico presenta una peculiarità tale da necessitare di regole più rispondenti ai bisogni delle famiglie e, in tal senso potrebbe essere prevista la possibilità di effettuare, in modo continuativo, la chiamata dall’estero senza vincolarla alle quote né a periodi determinati, scorporando quindi il lavoro domestico dalla programmazione dei flussi;
lavoro stagionale: è opportuno introdurre una distinzione tra il lavoro stagionale di durata inferiore a due mesi e quello di durata superiore;
diritto di precedenza: il diritto di precedenza per quanti sono iscritti al collocamento, come prospettato dal ddl, non è applicabile in ragione del superamento delle stesse liste di collocamento. Appare inoltre come una totale incongruenza il fatto che il prefetto, in qualità di responsabile dello sportello unico, possa essere il referente per le attività di collocamento;
perdita del posto di lavoro e rinnovo del permesso di soggiorno: deve essere rigoroso il rispetto della convenzione 143 dell’Oil, ratificata dall’Italia, che prevede che la perdita del posto di lavoro non possa in nessun caso essere motivo di nullità del permesso di soggiorno, in quanto l’Italia ha recepito con legge la convenzione medesima;
contratto di soggiorno: il contratto di soggiorno è istituto che contrasta non solo con la convenzione OIL, ma soprattutto con ogni processo di integrazione e di cittadinanza. Si tratta piuttosto di uniformarsi anche alle direttive europee per stabilizzare i permessi di soggiorno di lunga durata senza innalzare da cinque a sei anni le condizioni per il rilascio della carta di soggiorno e creare le condizioni di una integrazione duratura. Occorre anche istituire modalità chiare per l’ingresso per motivi di stage, o per visite culturali.
ricongiungimento familiare: occorre riconfermare le condizioni poste dalla legge 40/98 per quanto riguarda sia i genitori a carico che i familiari entro il quarto grado quando essi sono inabili al lavoro.
espulsioni: esprimiamo contrarietà all’inasprimento delle pene previste; devono invece essere affrontati i problemi di applicazione in quanto da questi spesso deriva piuttosto un aumento della clandestinità. Occorre incentivare percorsi di emersione anche per i lavoratori immigrati che lavorano irregolarmente.
diritto d’asilo: l’Italia necessita urgentemente di una normativa organica sul diritto d’asilo, anche in attuazione dell’articolo 10 della Costituzione. Anche a tale proposito risulta di grande utilità ispirarsi alla proposta in discussione a livello europeo.
corsia preferenziale discendenti cittadini italiani: l’ipotesi è ammissibile solo in quanto non incida sulle quote riservate agli immigrati non comunitari.
• immigrati irregolari: regolarizzazione dei cittadini stranieri presenti nel territorio italiano che ottengano regolare rapporto di lavoro.
diritto di voto agli immigrati: il governo dovrà impegnarsi affinchè il parlamento recepisca appieno la convenzione di Strasburgo sulla partecipazione degli immigrati all’elettorato attivo e passivo nelle elezioni amministrative presentando la relativa proposta di legge.